30 dicembre 2018 – 73° Anniversario della Battaglia di Monte San Mauro

Antudu!

U’ FRUNTI NAZZIUNALI SICILIANU “Sicilia Indipinnenti”, promotore dell’annuale commemorazione della battaglia di Monte San Mauro con la quale la Sicilia ottenne lo Statuto Speciale dell’Autonomia Siciliana (mai applicato), invita per il 30 dicembre 2018 dalle ore 10.00 alle 12.00, come da precedente comunicato…

(clicca il link seguente per visualizzare l’evento)

https://www.facebook.com/events/531780417297469/

tutti i movimenti indipendentisti a incontrarsi a Caltagirone, per rendere omaggio alla memoria di quanti lottarono per l’indipendenza della Sicilia a costo della loro stessa vita, nell’auspicio che possa iniziare un “percorso comune” che porti all’indipendenza della nostra amata e maltrattata terra.

Onore ai combattenti dell’EVIS. Onore al comandante Concetto Gallo!

Programma di massima per il 73° Anniversario 
(29 dicembre 1945 – 30 dicembre 2018)
della Battaglia di Monte San Mauro a Caltagirone

Domenica 30 dicembre 2018
Ore 10:30
In marcia verso la cima del Monte San Mauro.
Ore 11:00
Deposizione di fiori in memoria dell’ultima battaglia indipendentista.
N.B – Bisogna essere attrezzati con scarpe da trekking e giubbotto antivento.

 

La battaglia di Monte San Mauro 

(dalle Memorie del Comandante Concetto Gallo

Concetto Gallo

Nella seconda metà del 1945, mentre io mi trovavo nella clandestinità sulle montagne attorno a Caltagirone, alcune componenti politiche dell’indipendentismo avevano preso contatto con esponenti dell’Italia per la ricerca di una soluzione pacifica che escludesse o che evitasse lo scontro armato. E in effetti qualcosa di sostanziale riuscirono a ottenere. Un giorno qualcuno mi avvertì che mantenessi calmi i miei uomini perché qualcosa a Roma si stava muovendo in senso molto favorevole a noi. E in effetti, all’incirca verso il mese di novembre del 1945, l’allora il ministro degli Interni, Giuseppe Romita, inviò, espressamente, un aereo militare a Catania con il compito di portare a Roma una rappresentanza dell’indipendentismo.

Su quell’aereo si imbarcarono alcuni esponenti prestigiosi del Mis. C’erano l’onorevole Bruno di Belmonte, mio padre, Ulisse Galante, Giuseppe Bruno e l’avvocato Pontetoro. Riunitasi a Roma insieme con altri elementi del Mis, la commissione presentò a Romita un progetto di armistizio che prevedeva il rientro nella legalità di tutti i giovani dell’Evis, la libertà di parola, la riapertura delle nostre sedi, e così via. Romita fu largo di promesse. Promise anche il riconoscimento di una bandiera siciliana, la bandiera giallo-rossa con una coccarda tricolore, ma i più intransigenti indipendentisti saltarono per aria “No, la coccarda no”, dissero sdegnati. Fu mio padre, con molto buon senso, che accettò la proposta. “Ma sì”, disse. “La coccarda tricolore nella bandiera siciliana può andare benissimo”, concluse.

A questo colloquio ne seguirono, tra Palermo e Roma, alcuni altri nei quali, sia pure non ufficialmente, ci si occupava del problema del fatto compiuto: vale a dire dell’esistenza dell’Evis, del destino degli uomini che erano finiti nella clandestinità. Accordi precisi non ne vennero fuori. Si stabilì a un certo punto che una volta entrato in vigore quella sorta di statuto tutto dovesse ritornare come prima, che gli uomini sarebbero scesi dalle montagne, avrebbero deposto le armi e “in un modo o nell’altro sarebbe stata trovata una soluzione”.

Era questa soluzione che io stavo aspettando nella prima metà del mese di dicembre 1945 sulle montagne di Caltagirone. I messaggi che mi venivano dal Movimento erano improntati al migliore ottimismo e invitavano, costantemente, a non “creare disordini”. Per questa ragione, vale a dire per non turbare i “pour parler” in corso con errori, bloccai a Nicosia e a Pietraperzia una colonna di circa duecento giovani che doveva ricongiungersi al mio gruppo.

Ma il ventisette dicembre Guglielmo di Carcaci mi inviò un messaggio. “Stai attento”, diceva il biglietto, “perché in questi giorni le zone dell’Etna e quelle di Catania pullulano di soldati. Ci sono molti movimenti strani”. Il giorno dopo, il ventotto dicembre, un gruppo di contadini mi avvertì che Caltagirone era diventata un vero e proprio presidio e che c’erano anche dei carri armati. La mattina del 29 dicembre, all’alba, raggiunsi la sommità di Piano della Fiera dove c’era il nostro accampamento. La zona era quasi tutta circondata dalla nebbia.

I giri d’orizzonte col binocolo non dicevano granché. Poi, alle sei e mezzo, arrivò la prima bordata di mortai. La battaglia era già iniziata. Noi, come dicevo, eravamo una sessantina in tutto, compreso un gruppo di briganti che durante la notte si era avvicinato al nostro accampamento per rifocillarsi. Inoltre mancava la pattuglia di cinque uomini che la notte precedente era stata mandata in avanscoperta.

Non appena si diradò la nebbia, affiorò chiara, in me e poi negli altri, la sensazione che era arrivata la nostra ultima ora. L’accerchiamento nei nostri confronti era già stato effettuato. Ma, convinto che la guerra sarebbe dovuta continuare anche dopo di me, operai in modo di impegnare le truppe di fare sganciare il grosso dei miei uomini. Mentre io con cinque giovani, Amedeo Boni, Emanuele Diliberto, Filippo La Mela e due contadini, mi portavo verso le truppe, carabinieri, polizia, soldati, per impegnarli frontalmente, e dar così modo al resto degli uomini di arretrare, ordinai al resto della compagnia di sganciarsi e di abbandonare la zona.

La battaglia cominciò a diventare aspra. Le truppe cercano di creare attorno a loro la terra bruciata. I cinquemila uomini, al comando dei cinque generali, cominciarono a sparare con una intensità inaudita: come se di fronte a loro avessero avuto un vero e proprio esercito. In effetti a questa “credenza” avevamo contribuito anche noi inviando al ministero degli Interni, nei mesi precedenti, rapporti, su carta intestata dell’Ispettorato generale di polizia, nei quali si drammatizzava enormemente la situazione e dove si parlava di basi, di ingente numero di armi e materiali.

I miei uomini operano lo sganciamento attorno alle due del pomeriggio. A quell’ora contro cinquemila uomini che, come scrissero più tardi i giornali, “sparavano migliaia e migliaia di colpi” non c’ero che io e altri quattro. La bandiera giallo-rossa garriva al vento e più tardi, quando le truppe si avvicinano alla nostra postazione, era l’obiettivo principale dei tiratori. Verso le due e trenta del pomeriggio, sistemai un cecchino al mio fianco sinistro per impedire una sortita da parte delle truppe. Ma l’uomo, il giovane Diliberto di Palermo, commise un errore. Per raggiungere una posizione più avanzata si spostò e nel tragitto venne colpito a morte.

All’infernale fuoco delle truppe noi rispondemmo alla meglio con le nostre armi in dotazione: fucili, mitra e bombe a mano. Ormai stava per calare la sera e le nostre munizioni erano finite.

Sembrava che la morte non mi volesse. Una pallottola mi colpì al petto ma fu deviata da una medaglietta che tenevo nel taschino del giubbotto. Più tardi una raffica di mitra mi sfiorò il fianco bucando il giaccone e lasciandomi indenne. Poi una fucilata mi sfiorò all’altezza del cavallo dei pantaloni. Anche questa non mi colpì. Un colpo mi portò via il berretto e mi colpì lievissimamente alla testa.

Fu il momento in cui capii che non c’era più niente da fare. Che l’unica cosa era morire là sul quel pianoro, insieme con i miei amici, i miei uomini. Ordinai a Boni e a La Mela di mollare e di arrendersi. Boni rifiutava di abbandonarmi e io glielo imposi. Restai solo. Fu allora che staccai la bomba a mano che tenevo legata alla cintura, tirai fuori la spoletta e me la buttai tra i piedi nella speranza di saltare per aria. La bomba non esplose.

Ormai era quasi sera. C’era un sibilo. E una bomba, una granata, esplose davanti a me. Il buio della morte arrivava col buio della serata? Macché. Pochi minuti dopo mi risvegliai. Accanto c’era un maresciallo dei carabinieri, il maresciallo Manzella, che, come avrei saputo più tardi, mi aveva salvato la vita. Trovandomi infatti svenuto, il milite della pattuglia che mi aveva scoperto aveva già puntato il mitra contro di me e stava per lasciare partire una raffica quando intervenne il maresciallo dei carabinieri Manzella. E lui che puntando a sua volta il mitra contro l’uomo gli disse:

“Se tiri contro quell’uomo ti ammazzo”.

Ma non ebbi molto a gioire, almeno per qualche tempo, di essere scampato alla morte. Ammanettato come un brigante, venni caricato su un camion e portato a Catania dove, immobilizzato ancora di più, mani e piedi, venni buttato dentro una cella, nella quale sono vissuto per due giorni senza bere e mangiare.

Quanto al resto dell’armata italiana, continuò a bombardare il Piano della Fiera fino all’indomani mattina alle sei. Il generale Fiumana, uno dei cinque generali che comandavano le truppe, incontrando più tardi mio padre gli tese la mano dicendo: “Ho avuto l’onore di stringere la mano a suo figlio”. Così finì la guerra per l’indipendenza della Sicilia».